Parlare di aborto non è mai semplice.
Siamo tutt* d’accordo che l’interruzione di gravidanza sia una pratica medica sicura oltre che un diritto inalienabile di ogni donna e oggi più che mai tutto questo va ribadito a gran voce.
Eppure, quando accanto alla parola “aborto” mettiamo il termine “disabilità” il discorso si complica tremendamente, rischiando di sbilanciarci verso il moralismo più intransigente o la più fredda e cinica biomedicina. Trarre delle conclusioni non è facile e non intendiamo farlo, quello che vorremmo è invece iniziare un dialogo – non una polemica! – con voi.
Visto l’altissimo tasso di interruzioni di gravidanza quando al feto è diagnosticata una grave malattia o una disabilità, molt* attivist* per i diritti delle persone disabili sono arrivati a parlare di eugenetica.
Portare a termine una gravidanza e mettere al mondo un* figli* san* è però in realtà una costrizione sociale, supportata non solo dall’idea comune e stereotipata che la disabilità sia una “disgrazia” e che l’aborto arriva come una soluzione “pietosa” a evitare un’esistenza considerata da molti indesiderabile e indegna, ma anche da un sistema di welfare che non dà praticamente – al netto di alcuni sussidi assolutamente insufficienti – alcun aiuto alle famiglie con figl*disabili, affidando ai genitori i costi – economici e non – della cura.
Partendo sempre dal principio che la disabilità non è definita dai nostri corpi ma dal contesto sociale in cui i nostri corpi abitano (nel senso che i nostri corpi non sono disabili-in-sé, lo sono rispetto alle barriere architettoniche, sociali e politiche del contesto in cui viviamo), è facilissimo rendersi conto del fatto che spesso l’aborto di un* figli* disabile sia più una necessità sociale e culturale che non una scelta inevitabilmente suggerita dal buonsenso, dalle difficoltà economiche o dalla pietà, o meglio che quel buonsenso, quelle difficoltà economiche e quel concetto di pietà sono culturalmente e storicamente informati, dipendono non soltanto dalle idee preconcette sulla disabilità ma anche da un welfare che non sostiene come dovrebbe le madri di bambin* disabili come dovrebbe, da un punto di vista sia economico, che psicologico. La scelta dell’aborto nel caso in cui il feto abbia una qualche malattia grave o disabilità è dettata da quella che Paul Farmer definiva “violenza strutturale”, quello stato di cose che – per quanto noto e accettato – non è giusto né tollerabile. Se pensiamo alle problematiche più pratiche del crescere un* figl* disabile, è immediato capire quanto le risorse economiche e sociali di ciascuna famiglia (possibilità di accedere a un certo tipo di cure, possibilità di delegare il lavoro di cura, possibilità di avere sostegno psicologico, possibilità di garantire all* figli* un’educazione adeguata alle sue necessità, eccetera) abbiano un peso fondamentale nel prendere la decisione di abortire o meno. Questo deve essere il nuovo, fondamentale punto di vista da cui partire per ogni discorso su aborto/disabilità che sia davvero un discorso politico a beneficio dei diritti delle donne: senza una vera possibilità di scelta, molte scelte diventano obbligate e diventano imposizioni.
Inoltre, volendo guardare il problema da un altro punto di vista, l’aborto diventa un tema più difficile di quanto non lo sia di solito quando riguarda una madre disabile: non sono pochi i casi di aborti “obbligati” dalle famiglie di origine o “suggeriti” dai medici in alcuni casi in cui la madre è ritenuta mentalmente non in grado di prendere una decisione sulla sua stessa maternità, contravvenendo a ogni principio di autodeterminazione. Inoltre sulle madri disabili grava uno stigma sociale enorme: considerate egoiste e capricciose, il loro desiderio di maternità viene visto come inammissibile, una colpa che verrà poi espiata dal* figli* o – e torna sempre in campo a piede teso l’inspiration porn – come una prova di coraggio quasi eroico. Scegliere se abortire o se, al contrario, portare avanti una gravidanza diventano, nel caso di donne disabili, possibilità di cui in molti – più di quanto non accada con donne non disabili – sentono di poter dire la loro, giudicando sulla base di un’esperienza che non può essere vissuta né compresa, ma solo immaginata sulla base di quell’abilismo più o meno consapevole di cui tutt* siamo vittime.
La maternità o la scelta di non diventare madri, così come la sessualità in generale, sono campi minati per tutte le donne ma lo sono ancora di più per quelle donne i cui corpi – ipermedicalizzati da un lato, derisi e incompresi dall’altro – sono nella maggior parte dei casi difficili da gestire in autonomia. È necessario che le ragazze e le donne disabili – come tutte le ragazze e donne – abbiano il diritto ad accedere facilmente ad informazioni adeguate sulla sessualità in riferimento alla propria condizione/disabilità, così da poter vivere con piena consapevolezza la propria vita sessuale, relazionale e riproduttiva.
Allora che sia aborto libero e sicuro per tutte, ma quando si parla di aborto non si continui a far finta che questo non riguardi l’abilismo. È arrivato il momento in cui i movimenti femministi comincino davvero a prendere per mano le compagne e le sorelle disabili per raggiungere, tutte insieme, una vera autodeterminazione dei nostri corpi, qualsiasi forma e qualsiasi capacità abbiano.
Claudia
Palermitana, trentaqualcosenne. Lettrice da sempre, scrive di libri e fumetti in giro sulla rete. La collaborazione con From the Others è la sua prima esperienza nel mondo dell’attivismo.Praticamente innocua [cit.]