La disabilità spiegata semplice, da chi la conosce, per tutti.
POP sta per popolare, contemporaneo, comprensibile.
Mozart lo era per le damine del 700 come per noi lo sono Mahmood o i Måneskin.
POP è la canzonetta che senti in radio e ti rimane in testa tutto il giorno.
POP è qualcosa di semplice, diretto, alla portata di tutti.
La disabilità, pur essendo la minoranza di cui tutti faremo parte un giorno, anche solo invecchiando, spesso ha parole complicate, tecniche, oscure e comprensibili solo agli addetti ai lavori.
Non è POP.
In questo podcast, pur coscienti della complessità dell’argomento, cercheremo di fare questo. Rendere POP la disabilità, per tutti, disabili e non.
Io sono Ori.
Io sono Ari.
Vogliamo raccontarvi la disabilità come fino adesso non l’avevamo ancora sentita raccontare. Semplice, diretta, POP.
EPISODIO n°01
«Non fu prima di due settimane, il 13 settembre, che Micah (un ragazzo conosciuto su un’app per appuntamenti) mi chiese della sedia a rotelle. Con grazia, attenzione e curiosità, nel mezzo di uno scambio su sofferenza ed empatia, scrisse: “Nel tuo profilo hai fatto riferimento al fatto che usi un deambulatore e una sedia a rotelle da quando eri piccola. È qualcosa che ti ha insegnato l’empatia? Come ha modellato la tua vita? Forse è una richiesta ridicola quella di far entrare un tema così ampio in un messaggio scritto e forse c’è un modo più cortese di esprimere curiosità per una situazione del genere, ma sono curioso, quindi te lo chiedo”. Apprezzai la domanda, il tono, le parole scelte. Adoravo la sua curiosità spontanea. Non un bramoso tentativo di cogliere dettagli cruenti, ma un umile interesse. (…) Aveva semplicemente esteso un invito a condividere le mie storie. Io stessa non avrei potuto costruire meglio la domanda.»
Da “Felicemente seduta” di Rebekah Taussig.
Ari: “C’è un tema spesso scivoloso quando si parla di disabilità, ed è il come comportarsi con una persona disabile. Spesso la risposta è ‘come con chiunque altro’, ma non penso sia il consiglio migliore. Non perché sia scorretto, ma perché spesso viene interpretato, e messo in atto, come ‘fai finta di niente’ o peggio, ‘comportati normalmente’ quando, per ovvie ragioni, la normalità di una persona non disabile non è quella di una persona disabile.
E anche tra le persone disabili, normalità può voler dire mille cose diverse: se sono cieca è un conto, se mi muovo in carrozzina è un altro, se ho una malattia neurologica è un altro ancora.”
Ori: “Per chi non ci conoscesse, io sono Ori, giornalista sociale per il mensile Il Bullone, addetta stampa, teatrante, malata cronica e un sacco di altre cose.”
Ari: “Io sono Ari, vengo dall’Eritrea, studio Economia e Diritto a Bologna, porto avanti un collettivo che si chiama Sistemabile e mi muovo con una carrozzina elettrica.”
Ori: “Questo tecnicamente è il secondo, anche se in realtà è il primo, episodio ufficiale (perché quella del mese scorso era la puntata pilota) del nostro podcast DisabiliPOP. Per preparare questo episodio, abbiamo fatto una banalissima ricerca su Google, chiedendogli, appunto, come ci si comporta con una persona disabile. Ed è venuto fuori un universo meraviglioso! (ride)”
Ari: “Di tutto! Ma infatti, la prima cosa che stupisce è quanti articoli ci sono sul tema, c’è un sacco di gente che non solo si è posta la domanda, ma si è anche impegnata a scriverci su dei tutorial, come se fosse una ricetta di pasticceria complicata.”
Ori: “ La maggior parte degli articoli che abbiamo letto hanno un grosso punto in comune, che è: l’abled gaze.”
Ari: “ L’abled gaze, tradotto letteralmente con sguardo abile, è una voce narrante di parte, non disabile, che racconta la disabilità a un pubblico che dà per scontato comprendere solo persone non disabili, che quindi condividono quella visione.
Ori: “Una visione stereotipata, in cui la persona malata o con disabilità è una poverina che ha bisogno di cure e nient’altro che quello. Oppure, all’estremo opposto, una guerriera da ammirare e un esempio d’ispirazione per la vita.”
Ari: “L’abled gaze ha una caratteristica che è quella di rassicurare, fa sentire al sicuro e nel giusto il suo pubblico di riferimento e, tendenzialmente, mantiene lo status quo: un mondo nel quale chi è di sana e robusta costituzione si prodiga per far stare meglio, accudire e coccolare le povere malate. Facendosene persino portavoce. Che loro siano d’accordo o meno ovviamente, è un dettaglio.”
Ori: “A differenza del male gaze, ovvero lo sguardo maschile, che come voce narrante, sessualizza i personaggi femminili presenti all’interno di un racconto, ed è quindi più facilmente riconoscibile da chiunque come negativo e discriminatorio, l’abled gaze è spesso straripante di buone intenzioni, rende più complicato identificarlo come atteggiamento scorretto.”
Ari: “Tra l’altro, la prima cosa che salta all’occhio di questi articoli che abbiamo trovato è l’enfasi sull’aiutare. Sembra scontato che, se incontro una persona disabile, questa avrà bisogno del mio aiuto o, avrà qualcuno a fianco (assistente, interprete, infermiera, cane guida) che passa del tempo con lei esclusivamente per quello. Punto. Non c’è un altro motivo contemplato.”
Ori: “Ah, ovvio. Uscire con persone che hanno piacere di uscire come me e basta, ovviamente non fa parte del pacchetto. La cosa divertente è la precisione delle indicazioni che vengono date su alcuni di questi articoli (ride). Su quale sia l’aiuto da dare al/alla poverino/a, di turno. Ce n’è una in particolare mi tocca personalmente e, vorrei utilizzare l’occasione del podcast per distruggerla. La guida WikiHow, intitolata: Come Interagire con le Persone Disabili in 14 Passaggi, al punto 6 del paragrafo intitolato Interagire adeguatamente, dice: non intralciarle la strada. Mettiti a lato se vedi qualcuna che cerca di spostarsi sulla sedia a rotelle. Lascia passare quelle che usano il bastone o il girello.
Ecco. No! No! Lo urlo all’Italia. Per favore, non fatelo più! Io spesso (specialmente se sono in trasferta), uso una stampella per camminare, e 9 volte su 10 io, quella persona che ha letto la guida di WikiHow, la incontro (ride).”
Ari: “A quanto pare tutti leggono WikiHow.”
Ori: “Categoricamente c’è qualcuno, sul marciapiede, treno, al bar, per strada che, mi vede con la stampella e fa cenno di passare davanti a lui/lei. Chiaramente spesso è un’offerta fatta da una persona più sana di me e, verosimilmente, cammina più veloce di me con la stampella. Quindi, mi fa passare, perché è gentile e cortese. Però poi me la sento col fiato sul collo tutto il tempo, finché non ha il punto per potermi sorpassare di nuovo.”
Ari: “E come ne esci, di solito?”
Ori: “Ho imparato (ma non funziona sempre, perché tanti insistono) semplicemente a sfoderare un sorriso meraviglioso, ringraziare e dire: ‘Guarda, sono più lenta di te, passa avanti.’ Qualche volta funziona, qualche volta no. Giuro, Non ho ancora morso nessuno, non ho ancora mandato a quel paese nessuno.”
Ari: “Non ancora direi. Comunque, c’è un altra indicazione meravigliosa, che per altro va fortissimo su parecchi articoli trovati in giro, che dicono: per mettere a proprio agio qualcuno in carrozzina: posizionati alla sua altezza, ciò ti consentirà di parlare faccia a faccia e la farai sentire a suo agio. Durante le conversazioni lunghe, guardare in alto per molto tempo potrebbe provocarle rigidità e dolore ai muscoli del collo. (ride).
Ok. Grazie della premura, davvero. Ma questa cosa non è del tutto vera. A parte il fatto che io sono abituata ad essere più bassa. C’è sicuramente a chi fa piacere (non possiamo generalizzare) ma chi invece si sente a disagio per tanti motivi. Io personalmente mi sento molto a disagio quando le persone si avvicinano abbassandosi, proprio la distanza tra me e quella persona si riduce drasticamente.”
Ori: “Magari non ti conosco, non so chi sei.”
Ari: “Esatto! Se proprio si vuole stare allo stesso livello, avere una conversazione guardandosi in faccia, alla pari, procurati una sedia. Così siamo tutt’e due seduti e parliamo. Però, proprio avvicinarsi etc.”
Ori: “E accucciarsi come faresti con un bimbo piccolo, no.”
Ari: “Esatto. Mette a disagio. Poi ovviamente non è generalizzabile. Per questo non esiste un turorial.”
Ori: “Non si può fare un tutorial! Rinunciateci, per favore (ridono). C’è un altro suggerimento che, in tutta onestà, vogliamo smontare. Anche questo è uno di quelli che vanno super forte, ed è il: mettersi nei panni della persona disabile. Spoiler: non funziona. Anche perché è la quotidianità, spesso anche nei gesti più piccoli e stupidi, ad essere completamente diversa. Quella che a te da fuori sembra una difficoltà ad indossare la giacca, o trasportare la spesa, o partecipare a una conversazione, molto spesso è solamente un modo diverso dal tuo di farlo.”
Ari: “Ma sì, infatti. Come mi dicevi anche te: se hai entrambe le stampelle, una porta anti-panico la apri di schiena tranquillamente; oppure, una persona autistica, ti sta ascoltando con attenzione anche se non ti guarda negli occhi. Spesso abbiamo perfetto controllo sul nostro corpo, ma non nel modo in cui tu ti aspetteresti.
L’unico suggerimento valido, come sempre, è chiedere. Hai bisogno di aiuto? Posso darti una mano? In che modo?”
Ori: “Sì. E non rimanerci male quando sbagli! Perché tu mi hai raccontato spesso che, la gente ti si avvicina anche quando non hai assolutamente nessun tipo di problema in corso.”
Ari: “Sì. Sono lì che mi faccio le mie cose, passeggio o sono con i miei amici che parlo e gente random si avvicina e mi dice se ho bisogno bisogno. Ehm… no. Cioè sì, tante cose. Però no! (ridono).”
Ori: “ Dai risultati di questa oramai approfondita ricerca, c’è un altro dubbio gigantesco e insormontabile (che addirittura ha dei WikiHow, dei tutorial specificatamente dedicati): come parlo di una persona disabile?”
Ari: “Ariam.”
Ori: “In che senso?”
ri: “Il mio nome. Mi chiamo Ariam. Le persone disabili, come chiunque altro, hanno un nome di battesimo. Chiedere quello, come prima cosa, credo sia già un ottimo punto di partenza.”
Ori: “Se poi vuoi scendere nel dettaglio della disabilità, sempre che sia veramente fondamentale in quel momento, ci sono un paio di concetti importanti da conoscere: Person first e Identity first.”
Ari: “Si parla di person-first (letteralmente, prima la persona) quando, nel presentarmi, introduco la disabilità come una delle tante caratteristiche di me, per esempio: sono una persona con disabilità, ho una malattia cronica, sono una persona con autismo.
Con identity-first (letteralmente prima l’identità), ti presento la mia disabilità come qualcosa che sento parte della mia identità come persona. La caratteristica diventa, quindi, un aggettivo che mi descrive: sono una persona disabile, sono una malata cronica, sono una persona autistica. Si rivendica il proprio status di persona disabile nella società con fierezza, direi.”
Ori: “Anche qui, come per l’aiuto, basta chiedere come una persona preferisca definirsi. Mettendo comunque sempre in conto che la mia disabilità o malattia potrebbe non essere il mio argomento di conversazione preferito, e quindi potrei chiederti di evitare, semplicemente, di farmi domande a riguardo.”
Ari: “Anche perché, possiamo parlare del tempo, del gossip, dell’ultimo film di Sorrentino o della situazione geopolitica europea, che ne so. Con una persona disabile, il tema principale della conversazione può tranquillamente non essere la disabilità. Ma può essere tutt’altro.”
Ori: “E invece, secondo te, quando invece è lecito fare domande a riguardo?”
Ari: “Allora. Per esempio, ad un appuntamento. Non deve sembrare strano, io quando esco con qualcuno spero fermamente che sia interessato a conoscere anche quella parte di me. Come racconta Rebekah Taussig nel brano che abbiamo usato come introduzione dell’episodio, con sincera curiosità, non morbosa e magari non proprio come prima domanda.
Però, se ti piaccio, se ci frequentiamo, e quindi c’è un contatto fisico importante, sapere come funziono, che medicine prendo, in che orari ho l’assistente, o chiedermi liberamente quando non capisci certe mie azioni o atteggiamenti, è abbastanza fondamentale.”
Ori: “Un altro contesto, secondo me anche questo inaspettato per tanti che ascoltano, è: il lavoro, per esempio. Già in fase di selezione, anche nei colloqui come categoria protetta, è rarissimo che mi facciano delle domande palesi e dirette sulla malattia. La scusa, spesso, è quella della privacy.
Però la legge sulla privacy dovrebbe tutelare me se non voglio rendere pubbliche certe informazioni, non essere un alibi per chi ho davanti, in questo caso il datore di lavoro, per non informarsi su quali siano le condizioni migliori per me perché io possa ricoprire quel ruolo per cui mi sta selezionando.
Se poi a lavorare insieme ci arriviamo per davvero, quindi passiamo per forza molto tempo insieme, diventa non solo utile, ma secondo me, indispensabile: Sia a me, categoria protetta, che a te collega, sapere dei dettagli in più sulla mobilità, su come comunicare con una collega sorda per esempio. L’inclusione implica una cooperazione, uno sforzo che dev’essere fatto da entrambe le parti, non è superficiale cortesia.”
Ari: “A proposito di cortesia, nel caso ve lo steste chiedendo, no, non è carino definire qualcuno diversamente abile, portatore di disabilità, con bisogni speciali o non qualcosa (non udente, non parlante, non vedente, non deambulante).
Sono tutte definizioni figlie dell’abled gaze di cui parlavamo prima, che si pone il problema del politicamente corretto. Malato, disabile, cieco, sordo, muto, amputato. Di per sé, sono condizioni neutre, semplici caratteristiche, come l’essere biondo o avere gli occhi azzurri. L’accezione negativa di queste parole è negli occhi di chi magari ne ha inconsapevolmente paura e quindi non usa queste parole.”
Ori: “E così come la parola ‘disabile’ non è un’offesa, dirmi che non sembro disabile, o malata, non è un complimento.”
Ari: “Infatti c’è una frase che è un grande classico: Io vedo te, non la tua carrozzina.”
Ori: “Come se foste separabili, no? Quindi, anche se detto (lo capiamo sempre) con le migliori intenzioni, in realtà inconsciamente invalida quella parte di me, affermando che non vederla mi fa sembrare “migliore” agli occhi degli altri.“
Ari: “Annulla, rendendo invisibile, lo sforzo in più che io faccio a muovermi in un un mondo che quella carrozzina, quella malattia, quella mia caratteristica non solo non le vede, ma non le prevede, non le considera affascinanti e tanto meno desiderabili. E quindi non le incorpora nella progettazione di una casa, di un luogo di lavoro, di una discoteca, magari li dedica programmi speciali, dedicati, a parte. Separati da tutto il resto, lontani dalla società dei normali.”
Ori: “Di dubbi su queste interazioni ce ne sarebbero altri milioni da smontare, ma forse riprendere l’esempio degli occhiali dello scorso episodio può tornare utile, di nuovo.
Vedete una persona con gli occhiali, quindi disabile visiva. Le chiederesti quante diottrie le mancano o quale difetto visivo ha? Prima di chiederle come si chiama? Le prenderesti dalle mani il menù al bar per leggere al posto sua cosa c’è scritto?
Passeresti un’intera serata a parlare di occhiali e oculisti? Le consiglieresti di mangiare solo mirtilli e buttare via gli occhiali per tutta la vita? O ancora, le metteresti, in mezzo a una strada le mani sugli occhi, pregando che un Dio qualsiasi la liberi dalla miopia? Ecco io, penso e spero di no.”
Ari: “Non fare supposizioni, non sciorinare consigli e non pensare di saperne più di lei. Non dare per scontato nulla del suo vissuto, apriti a scoprire cose di un mondo che non conosci, facendo domande sinceramente interessate.”
Ori: “Che poi sarebbero buone regole di convivenza in generale, tra esseri umani. Anche perché non siamo mondi in galassie separate, in realtà. Non siamo mai davvero così lontani come ci sembra.”
Ari: “Proprio dal concetto dei due mondi partiamo per la Chicca POP!”
CHICCA POP
Ori: “Come raccontare tutta sta roba con un unico riferimento pop, che tutti conoscono?”
Ari: “Tutti tranne me.”
Ori: “Sei l’unica ventenne sul pianeta a non aver visto nulla, di nulla, di niente di tutto questo!” Ari: “Lo so. Hai ragione, sono colpevole. Recupererò, prima o poi.”
Ori: “Ariam deve recuperare, niente popo di meno che Harry Potter!”
Ari: “Non me ne vergogno (ridono).”
Ori: “Ma non Harry Potter in quanto personaggio. Più precisamente, il rapporto tra Mondo Magico e Mondo Babbano, ovvero (per chi non lo sapesse, tipo Ariam) il mondo dei non maghi. Ho trovato una citazione di Hermione Granger, folgorante:
Tutti i surrogati della magia usati dai Babbani – l’elettricità, i computer, i radar e quelle cose là – impazziscono intorno a Hogwarts, c’è troppa magia nell’aria. Ho pensato. Nel Mondo disabile, se così vogliamo chiamarlo, molto spesso le regole del Mondo abile impazziscono, non valgono più, perché a crearle, a scriverle non è più il mondo “normale”. Non è più l’abilità che comanda, ma la disabilità.
Quindi esattamente come la magia ad Hogwarts. La persona abile che entra nel nostro mondo, deve prepararsi a ribaltare la visione di tutto, esattamente come capita a Harry quando varca la soglia di Diagon Halley per la prima volta. Quindi, parlando di comprensione, chi deve fare lo sforzo più grande è Harry, in un primo momento, perché è lui a non capire niente di gufi e bacchette magiche, a non avere consapevolezza di quell’altro mondo.
I Babbani poi (i non maghi), non sono solo inconsapevoli dell’esistenza della magia, ma addirittura la discreditano, negandola completamente. Nel mondo dei Babbani, la magia non deve esistere, Maghi e Streghe o vivono e si frequentano tra di loro, oppure fanno tutto il possibile per non venire allo scoperto, per mascherarsi e rendersi quanto più simili ai Babbani per non spaventarli o turbarli, oppure per non essere maltrattati, derisi, o addirittura uccisi, come durante l’Inquisizione con i processi alle streghe.
Nei romanzi della Rowling sono veramente pochi i personaggi che cercano un dialogo reale. Il papà di Ron, Arthur Weasley, è estremamente curioso del mondo Babbano, cerca di mescolare la tecnologia umana con la magia, rischiando e facendo qualche volta dei gran danni, ma senza smettere di provarci con entusiasmo.
Hermione stessa, che è una Strega figlia di Babbani e vive per forza a cavallo tra queste due dimensioni, ha una brillante capacità di metterli in relazione e, spesso questa sua skill da Facilitatrice, da mediatrice, le fa trovare delle soluzioni inedite che ad altri non verrebbero in mente. Dimostrando che ciascun mondo può imparare qualcosa dall’altro.”
FINE CHICCA POP
Ari: “Se ho capito bene Arthur Weasley e Hermione Granger siamo io e te? Questo mi stai
dicendo?”
Ori: “Un po’ sì, un po’ magari anche chi sta ascoltando. Però l’invito è questo: siate più Hermione e più Arthur! Imparate ad essere curiosi di scoprire mondi che non conoscete ancora.”
MUSICA DI INTERRUZIONE
Ori: “L’ospite di questo mese è un carissimo amico. Come Alessio il mese scorso, ha ascoltato la puntata in anteprima, facendoci da tester, da cavia in qualche modo.”
Nicola: “Ciao ragazze! Io sono Nicola, classe 1990, originario di Bordighera ma ormai vivo a Torino dal lontano 2009. Sono un content creator, un autore. Di mestiere faccio il team leader.”
Ori: “Vai Ari. Comincia pure tu.”
Ari: “Ti chiederei: cos’hai trovato nell’episodio, di nuovo, che non sapevi e cosa invece sapevi già?”
Nicola: “Allora. Beh sì, qualcosa già sapevo. Cose più basilari (ride): trattare una persona disabile come qualcosa di esotico e quindi indagare in maniera compulsiva facendone l’argomento della serata, sicuramente non è una cosa carina. Ci sono state parecchie cose che non sapevo.
Lo ritengo molto interessante. Spesso in effetti, da persone abili, diamo per scontate un sacco di cose ed effettivamente, spesso c’è questo sentimento dilagante di dover aiutare chi è disabile.
Io probabilmente sono il primo che se vede una persona con le stampelle cercherà di aiutarla ad aprire un portellone anti-panico. Un gesto del genere l’ho sempre visto come un aiuto; scopro invece che non sempre il fatto che non ci sia una regola d’oro, da applicare sempre e comunque rende complesso il tema, ecco.”
Ori: “E invece c’è qualcosa in particolare che ti è rimasto più impresso di altro?”
Nicola: “Le cose che dite sono molte, molto dettagliate e i casi sono veramente infiniti, potenzialmente. Quello che mi è rimasto di più, sicuramente, è il macro concetto del chiedere, non essendoci, appunto, una formula magica che vale in tutte le casistiche. Farò tesoro, sicuramente, di questa cosa.
Chiederò, in maniera sicuramente più propositiva, come fa piacere alle persone che io
mi comporti, quando non ne ho la più pallida idea.”
Ori: “Ottimo. Credo sia un ottimo punto di partenza. Invece, di quello che hai ascoltato c’è qualcosa che abbiamo spiegato, magari in maniera poco chiara o, qualcosa che invece ti ha incuriosito e avresti piacere di approfondire?”
Nicola: “Sicuramente ci sono delle cose che mi farebbe piacere approfondire. Non tanto perché voi non siate state chiare, ma perché sono argomenti molto vasti. Mi interessa sì il discorso linguistico, forse mi piacerebbe focalizzarmi di più proprio sui comportamenti che invece bisogna attuare, perché sono poi quelli che forse mettono più in difficoltà. Come posso aiutarti se vuoi essere aiutata?
Quando vuoi essere aiutata? Lo devi sempre chiedere o ci sono dei contesti in cui io posso offrirti il mio aiuto o, insomma, scendere un po’ più nel dettaglio relativamente a questa tematica qua?”
Ari: “Ecco, magari sù quest’ultimo argomento ci torniamo perché effettivamente è molto interessante. Il galateo che proponiamo non è per niente scontato che sia seguito o riconosciuto e interiorizzato da tutte le persone disabili.
Anzi, spesso son le stesse persone disabili che sono ‘ingabbiate’ in questo insieme di regole per cui, davvero magari si aspettano quell’aiuto lì, quelle domande inappropriate vengono percepite come cosa normale, è il così detto abilismo interiorizzato che, esattamente come tutte le forme di discriminazione, venogno interiorizzate in una maniera involontariamente nociva nei nostri stessi confronti.”
Ori: “Azzeccatissimo l’approfondimento di Ari. Nico, aggiungerei, già che sei un creator decisamente attivo, di seguire altri creator. I primi che mi vengono in mente possono essere: @sistemabile, le @indimates, @simoneriflesso, @emanuelamasia, @bla_bla_blind e @manonsembrimalata.
Ma in realtà poi la lista è lunghissima. Il modo migliore per avere un manuale d’istruzioni in itinere, in costruendo, esattamente come faresti per qualsiasi altro argomento, è seguire le persone che ne parlano e ne parlano in prima persona. Anche perché i social sono stati un aiuto enorme anche per fare rete tra di noi e conoscerci. Quindi, a questo punto…”
Nicola: “Ho un profilo Instagram che si chiama @venividilibri in cui parlo soprattutto di saggi, romanzi fantasy e poesia (anche su TikTok). Mi trovate come Nicola Muratore (ma sono profili dedicati al ciclismo) e scrivo per il Blog Nastorix, sempre di queste due cose.”
Ari: “Grazie per averci ascoltato in questa prima puntata di DisabiliPOP e vi diamo appuntamento per il prossimo episodio.”
Ori: “Vi lasciamo con i nostri contatti, se avete piacere di seguirci su Instagram.”
Ori: @arleckina o @arlecchinosanspapiers
Ari: @sistemabile
SIGLA FINALE CON PEZZI DI RETROSCENA
Ari: “Come ti troviamo sui social?”
DisabiliPòP
Siamo un podcast auto-prodotto, scritto e condotto da Ariam Tesfazghi (Collettivo Sistemabile) e Oriana Gullone (@ilbaulediarlecchino).